Frammenti di una libertà nascosta
Succede di continuo, nonostante l’abitudine, che ad ogni partenza vi è un primo momento in cui avverto dentro di me, la sensazione di essere lontano da casa. E questo istante lo provo sempre, quando passo i controlli della polizia in aeroporto. Non succede nulla: tolgo la cintura, l’orologio, appoggio il cellulare nella vaschetta in plastica e apro le braccia per farmi perquisire. Poi il passaporto. Un augurio di buon viaggio e qualche raccomandazione sul bagaglio.
Sono ancora in Italia, a venti metri dalle porte scorrevoli che danno sulla strada alle mie spalle, eppure quando mi si presenta davanti il duty free, è come se fossi già partito; già distante dagli affetti, dai miei sapori, dalla mia gente.
Credo sia una questione di iter pre-partenza che necessiti di essere vissuta, affrontata, superata. Ed è giusto così. L’andare lontano porta sempre con sé qualcosa di malinconico che si diffonde nell’animo dei viaggiatori.
Oggi non sto partendo, non ho un aereo che mi aspetta, non ho il passaporto nella tasca dei jeans. Non ho neppure orari da rispettare. Sono fermo nel mio piccolo paese a qualche chilometro da Milano. Ma la sensazione di allontanamento è la stessa.
E’ la prima volta che la avverto stando “in ciabatte”. E mi spiazza il pensiero di non avere una valigia pronta. Questa volta è vietato andare.
Il decreto scritto a causa del Coronavirus parla chiaro: “non si possono lasciare le proprie abitazioni se non per svolgere attività di estrema importanza. E’ vietato uscire di casa per non essere contagiati dal virus e non contagiare”.
Tra i paesi e nelle città sono collocati diversi posti di blocco che permettono la circolazione solo con valido documento in cui si autocertifichi il vero motivo di uno spostamento. Ed è vietato barare. I trasgressori rischiano una multa o addirittura l’arresto.
Chiusi i negozi, i ristoranti, i bar, le palestre. Chiusi i contatti con tutte quelle persone che non fanno parte della nostra famiglia: amici, conoscenti, fidanzati e fidanzate, affetti. I sorrisi, le voci, i gesti d’amore sono possibili e fruibili solo attraverso una telefonata, o un messaggio ricamato e travestito da vicinanza.
Nessuno avrebbe mai immaginato una situazione simile, nessuno ha mai dato importanza, come in questo momento, al bisogno di una stretta di mano, di uno sguardo reale. Credo che, se solo avessimo saputo o intuito un minimo una situazione simile, avremmo fatto l’amore fino all’alba, prima di salutare gli occhi in cui ci siamo sempre persi. Probabilmente avremmo accantonato gli impegni di lavoro, avremmo spento il telefono e ci saremmo goduti il sapore della pelle, con gesti lenti, lunghi. Avremmo rallentato per far spazio a ciò che conta realmente nella vita.
Mancano gli abbracci, oggi, manca la libertà di camminare in sua compagnia.
Al di là dei vetri del mio ufficio, il mondo gira solitario tra qualche alito di vento. Le auto parcheggiate. E il silenzio della luna piena, enorme, quasi a vegliare sulla nostra corsa sfrenata che finalmente ha dovuto porre un freno.
Esco di casa col taccuino nella giacca, una penna a sfera e un pacchetto di sigarette. Spengo il telefono.
Cammino. Cammino senza una meta precisa, non curante della fatica, che in questi giorni non è la protagonista. Almeno quella fisica è uno sforzo sopportabile se si facesse sentire.
Ci sono altri personaggi a farmi compagnia, nella mia mente: i sensi, il respiro, i pensieri dei giorni andati; che sembrano così lontani. Il ricordo delle sue mani.
Canto tra me e me, le canzoni che sento alla radio, o quelle in terza pagina nella playlist. Lì ci sono dei pezzi seri. Di quelli che bucano lo stomaco se si ascoltano ad alto volume.
Oggi invece, li sussurro appena, poi smetto e riprendo. Smetto di nuovo. Preferisco ascoltare. Da solo. In silenzio. Tra un passo e l’altro.
Avverto il suono del verde che scatta al semaforo, melodie nuove che emergono dalla solitudine. Si sentono le voci lontane provenire da una finestra aperta, hanno il sapore di tovaglia non ancora sbattuta, perché adesso c’è tempo, si sta seduti, a parlare o ad ascoltare.
Neppure i cani abbaiano stasera, probabilmente anche loro hanno perso la voce; li scorgo da dietro una siepe, nel loro ansante respiro.
Aleggia nell’aria una foschia amica, il vento ha cessato il suo canto e la luna si è spenta dietro una nuvola nera.
E’ il momento dei sogni, dei respiri e dei fantasmi. Fino a domani.