Lezioni di fotografia… Oltre il Muro

“Hermes, come fotograferesti il deglutire?”.
E’ una domanda che mi porto dentro, da quel giorno in cui, prima di riporre la sedia sotto la cattedra, uno dei “miei Ragazzi” si avvicina a me e decide di confidarsi.
Nel carcere le parole scorrono lente, quasi ovattate, filtrate da una supporto senza vetro. E arrivano dirette ai bronchi, come un’auto che sbatte contro un muro quando l’acceleratore è bloccato a fondo corsa.
Succede sempre così, all’interno dei corridoi l’eco delle voci risuona lontano, in una filodiffusione fatta di risa e risacche. Il mare della detenzione è composto da acque tormentate sotto nuvole cariche di pioggia. Gli occhi sono osservabili da vicino: al rintocco della fiducia, della stretta di mano, a volte di un abbraccio fraterno.
Sentivo il bisogno, dopo il progetto fotografico svolto nel carcere di Bollate e successivamente in quello di San Vittore, di un ritorno al di là del muro. Curiosità e passione, urgenza primordiale di dover toccare con mano e far mie le situazioni, mi hanno spinto anche questa volta a cercare una storia da raccontare, e con essa il desiderio di donare un’emozione a chi si trova sulla terra come me, ma in un luogo non toccato dalla latitudine, in cui i tramonti hanno sempre la stessa cornice di cemento armato.
Un giro di telefonate. Conosco Don David, il cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio. Ricordo il nostro incontro, era un lunedì sera di aprile. E come il sole in quel periodo dell’anno necessita di illuminare le giornate per più tempo, c’era l’opportunità di realizzare un calendario in carcere. Personalmente nutrivo il desiderio di lasciare una parte di me, di donare voce a chi, per motivi che a volte vanno oltre la natura dell’uomo, non ne è più in possesso.
Facendo tesoro di un pensiero di Pavese e riadattandolo alla situazione: “Una voce serve, non fosse che per il gusto di dialogare con uno sconosciuto. Una voce significa non essere soli, sapere che al di là del muro ci sarà qualcuno ad aspettare, o forse no”. Ma il messaggio arriva. La storia non viene solo vissuta, viene raccontata.
Ho subito pensato di dover unire l’utile al dilettevole in un cocktail fatto di immagini e insegnamento. Di impiegare il mio tempo per svolgere un corso di fotografia in cui i “miei Ragazzi” conoscessero la tecnica, imparassero a vedere oltre l’immagine e capissero che la fotografia, se usata nel modo giusto, può diventare un mezzo importante per parlare, per gridare senza perdere la voce.
Lezioni di fotografia, alla fine delle quali sarebbero nate le immagini per il calendario duemilaventi.

Ho ancora i loro volti davanti a me, i sorrisi e le curiosità, oggi che il Natale è quasi alle porte e nelle celle si respira la stessa aria. Perché il tempo si ferma, gli orologi impazziscono come bussole al Polo Nord. E con essi i desideri, le menti. Gli animi si atrofizzano, la fantasia e la capacità di sperare si adagiano nelle lenzuola umide delle brande.
La mia classe dalle inferiate azzurre, vista orto, aveva il sapore dei cigolii nella notte. Chissà chi siederà dietro la mia cattedra, oggi. Chissà cosa pensano i “miei Ragazzi” quando potranno sfogliare il calendario con le fotografie che hanno realizzato.
Foto e pensiero, come dico sempre in ogni mio seminario. Perché credo fortemente che, nell’era dell’inquinamento fotografico, sia arrivato il momento di pensare e appuntare a penna un’emozione prima di fotografarla. Per fare la differenza e slegarsi dalla quantità di immagini che tempestano i nostri social. Fotografare ciò che non si vede, quello che aleggia dentro di noi, nella burrasca del nostro inconscio, nei sogni delle notti di totale solitudine.
Ce l’hanno fatta, i “miei Ragazzi”. Oggi, riguardando i loro scatti, ne colgo l’essenza lontana e allo stesso tempo ad un passo dai miei occhi.
Ricordo l’ultima lezione, dopo i saluti. Li ho visti allontanarsi e girare l’angolo che li avrebbe condotti nelle sezioni. La porta blindata si è chiusa alle mie spalle. Sono rimasto fermo a sentire le chiavi che giravano nella serratura. Ad occhi chiusi.
“Hermes, come fotograferesti il deglutire?”. Non lo so ancora oggi come poter rappresentare questo stato d’animo.
“Perché ti interessa tanto fotografarlo?”. Il “mio Ragazzo” scoppia in lacrime. Deglutisce.
“Ora hai capito… Hermes”.